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Prison Image

Harun Farocki in supporto all’Asilo occupato di Torino.
Preparazione alla discussione del 31 marzo al Collettivo Zam per  Saperi Autogestiti.
Stasera alle 21:00 si terrà al Cox18/Libreria Calusca l’Assemblea Pubblica con i compagni dell’Asilo Occupato di Torino sullo sgombero del 7-8 febbraio, gli arresti, la militarizzazione del quartiere Aurora e le mobilitazioni delle settimane seguenti, in vista della MANIFESTAZIONE A TORINO 30 MARZO 2019.

ASSEMBLEA PUBBLICA / 21-03-2019

Dedichiamo l’introduzione di questo articolo sulle immagini delle prigioni a Lorenzo e alle sue impressioni dall’altra parte di muri e sbarre, sul saluto fuori dal carcere del 10 febbraio a Torino:[https://www.autistici.org/macerie/?p=33416]
Durante gli ultimi mesi l’incontro cartaceo e filmico con Harun Farocki ha aperto le porte a riflessioni sullo stato delle immagini contemporanee, sopratutto sulle immagini di videosorveglianza (in questo caso delle carceri) e le immagini prodotte da droni aerei, denominate immagini operative.
Nel film in found footage Prison Image di Harun Farocki l’autore, tramite l’utilizzo della (sua) voce fuori campo, si domanda: Che cos’è un essere umano? mentre guardie e dipendenti carcerari aprono la cella, spiano al suo interno, annotano su un quaderno degli appunti e chiudono la porta.

 

Farocki ci mostra dei momenti tratti da Un condannato a morte è fuggito di Robert Bresson, 1956, montato con video d’archivio nazista di propaganda carceraria,
utili alla formazione di nuove guardie.
Il personaggio bressoniano parla a nome del popolo dei carcerati in termini panottici: sapevo di essere osservato, narra la voce fuori campo soggettiva. La sensazione è molto simile alla non-presenza che leggiamo in Essere e Nulla di Jean-Paul Sarte, in riferimento al militare sul fronte: mimetizzato con l’ambiente circostante, qualsiasi suono, movimento o fruscio di foglie può identificare un nemico che non vediamo. Un foro, un punto d’osservazione ma a senso unico, ovvero dal punto di vista di chi può osservare senza essere osservato. Un luogo predisposto al controllo anche dell’immagine, data la sua natura d’osservazione. L’impossibilità del protagonista della pellicola bressoniana di muoversi è identico al militare sartriano sul fronte: qualsiasi movimento attirerebbe il nemico. Nel panorama cinematografico bressoniano, o quando si mette in scena una cella su un set, la quarta parete esiste dal punto di vista delle sbarre o della porta. Ci dev’essere un ponte tra la realtà senza tempo della prigione e la realtà temporale al di fuori. Mescolando queste visioni alle nuove tecnologie apportate nelle carceri si comprende come molte rappresentazioni non saranno più possibili.
“Ho qui 24 minuti di nastro da tale ora di visita. La telecamera può essere spostata e l’ufficiale si avvicina per documentare le trasgressioni, che ovviamente, sembra molto voyeuristico. La guardia ha trascurato una cosa: un prigioniero nero ha girato lo schienale della sedia verso la telecamera e ha messo le mani della donna che lo sta visitando tra le sue gambe. Ho spesso osservato scene di
ore di visita in carcere, ma non credo di averlo mai visto prima. Conosciamo solo una così abile trasgressione delle proibizioni dalla nostra vita, di solito fin dall’infanzia, spesso in connessione con le proibizioni sull’amore.”
Harun Farocki  in Working on the Sight-Lines di Thomas Elsaesser
Farocki sta raccontando un video analizzato dagli archivi ma anche un film, precisamente
Un chant d’amour di Jean Ganet, 1950. In una scena la guardia spia un detenuto mentre si masturba. Una storia di consapevolezza: essere osservati come le donne dal foro di una parete in un locale pornografico o come il bambino spiato dai genitori nella sua stanza.
Associazioni con schermi verticali, in questo caso tra lo sguardo della guardia e quello delle moderne telecamere di videosorveglianza. Associazione d’immagine, parola e significato.
Uscendo dalla narrazione cinematografica osserviamo le immagini di due guardie che non possono permettere ai detenuti di oscurare la griglia d’osservazione installata
sulle porte delle celle con un materasso. Irrompono con lacrimogeni ed un ariete di ferro nell’unico foro che collega il detenuto all’esterno, costringendolo alla resa e all’abbandono della barricata eretta per non essere osservato. Tutto questo sotto l’occhio freddo delle videocamere che rendono trasparente la prigione per liberarla dal mistero. Occhi elettronici dappertutto, in ogni cella e in ogni angolo della struttura. L’edificio stesso per la sua conformità, spostato dai centri urbani dov’era collocato in tempi antichi, dichiara la sua essenza di luogo non umano.
La differenza oltre che strutturale e interna è sopratutto dettata dal cambio di tono dei
guardiani di questi non-luoghi. O luoghi non-umani. Prima i guardiani si limitavano ad un
controllo tramite l’osservazione, quindi erano scrutatori. Ora sono educatori.
“Vediamo un film prodotto dal Bureau of Prison di Washington, per l’aggiornamento del personale carcerario. Un detenuto in cella è fuori controllo […] un gruppo operativo entra in scena, con un medico al seguito, irrompe nella cella, prende il sopravvento sul detenuto e lo incatena al letto. Tutto ciò è ripreso dalla videocamera per documentare il distacco che l’apparato della giustizia è chiamato a mantenere nei confronti dei prigionieri. Questa rappresentazione è troppo meticolosa per essere plausibile, finisce per operare come una negazione. Insiste troppo sul fatto che il personale agisce con freddezza e spassionatamente, sul fatto che non prova nessun piacere
nell’assoggettare i prigionieri. Il messaggio è proclamato così spesso e con così tanta forza che si arriva a credere sia vero il contrario.”
Harun Farocki  in Working on the Sight-Lines di Thomas Elsaesser

 

Clio Nicastro nell’ultimo capitolo di Pensare con gli occhi, intitolato Identità, identificazione
e riconoscimento, partendo dall’idea di einfühlung di Harun Farocki, racconta dell’hashtag
#if they gunned me down which picture would they use (se mi uccidessero quale foto
sceglierebbero), tramite le parole di Tina Campt. L’hashtag in questione è una protesta della popolazione afro-americana contro gli omicidi da parte delle forze dell’ordine americane. L’hashtag rimanda alle immagini dei visi di in due diversi contesti: situazioni pubbliche e situazioni private spesso considerate deplorevoli, portando alla luce l’azione di ricollegare un’individuo deceduto ad una singola foto.
Durante gli scontri avvenuti a Milano il primo maggio del 2015 per la manifestazione No Expo, alcuni compagn* sono finiti sui giornali: sono stati oltraggiosi e poco delicati gli articoli di cronaca che i giornalisti hanno riportato tramite i quotidiani locali. Foto di volti catturati in evidenti momenti di shock sbattuti in prima pagina. Identificazione immediata. Sul social network Facebook sono attivi gruppi e pagine aperte che denunciano gli abusi in divisa: uno in particolare Filming Cops73, community dedicata al solo scambio di filmati amatoriali o di videocamere di sorveglianza che mostrano dei micro Prison Images alla farocki.
“Le guardie devono venire a contatto il meno possibili con i detenuti, e come accade nella produzione di merci, in cui praticamente non ci si serve più di uomini ma solo di macchine, così anche nella gestione dei detenuti non richiede più il diretto intervento dell’uomo.”
Harun Farocki
Guerre senza uomini, come fabbriche senza lavoratori. Uomini imprigionati in luoghi non
umani, controllati ed educati a loro volta da macchine guidate da uomini. Il panorama di
un film di fantascienza.